Un Paese che non parla più di immigrazione

La pandemia con i suoi quotidiani stravolgimenti ha spostato l’attenzione del dibattito pubblico dai fenomeni migratori. Gli italiani hanno oggi meno paura di coloro che arrivano da altri Paesi e sono più spaventati dalla crisi economica, dalla pandemia e dai cambiamenti climatici (come evidenziato di recente dal sondaggio realizzato da ISPI-IPSOS).

Non solo: i media italiani hanno parlato molto meno di migranti in questi anni pandemici, tanto che il Nono rapporto dell’associazione Carta di Roma, che si occupa di come le migrazioni vengono raccontate nel nostro Paese, s’intitola “Notizie ai margini”. Secondo alcuni questi dati possono essere letti con sollievo. Il sociologo dell’Università degli Studi di Urbino Ilvo Diamanti, ad esempio, sostiene che l’immigrazione non rappresenta più un’emergenza nella percezione dei cittadini. Sicuramente non costituisce l’emergenza prioritaria. La pandemia ha sottratto ai migranti “centralità nello spettacolo della paura, che fa ascolti, sui media”.

Forse dunque, dopo decenni di immigrazione, gli italiani cominciano a considerare le migrazioni un fatto normale. In fondo, la stessa pandemia ci ha mostrato paradossalmente quanto sia ormai irreversibilmente globalizzato e interconnesso il nostro mondo. E spesso sottolinea il professor Allievi, esperto di sociologia delle migrazioni, è ormai in parte superata perfino la distinzione tra Paesi d’immigrazione e Paesi d’emigrazione: l’Italia oggi ha circa 5 milioni di residenti di origine straniera, più o meno quanto sono gli immigrati italiani nel mondo iscritti all’AIRE. A ciò si aggiunga, come ha dimostrato la Fondazione Leone Moressa, che gli immigrati nel nostro Paese contribuiscono a finanziare le casse dello Stato più di quanto usufruiscono di servizi, gli immigrati infatti sono tendenzialmente giovani (e quindi pesano poco su sanità e pensioni): il saldo positivo è infatti pari a 600 milioni.

La ripresa che ha bisogno (anche) di lavoratori immigrati

C’è una constatazione da fare e che va a controbilanciare le interpretazioni più ottimiste: il tema delle migrazioni sembra essere scivolato via anche dall’agenda politica. L’indebolirsi del populismo avrebbe potuto lasciare spazio a politiche migratorie più intelligenti, ma ancora poco si sta facendo in questo senso.

Eppure, con le aspettative di una ripresa economica, crescono anche le preoccupazioni relative alla carenza di manodopera che caratterizza diversi settori del mercato del lavoro, in particolare per quanto riguarda le professioni tecniche. Più osservatori rilevano infatti uno scostamento tra la richiesta di specifici profili e la disponibilità per gli stessi per le imprese.

Come evidenziato recentemente da Oscar Giannino su “La Repubblica”, non c’è modo di affrontare un calo annuale medio di 200 mila lavoratori under 50 senza immaginare un cambio di marcia nelle politiche migratorie. Maurizio Ambrosini, sull’Avvenire, ha invece sottolineato l’importanza dei lavoratori immigrati per l’economia italiana e in particolare per il settore edile: le imprese con titolari nati all’estero sono pari al 17,4% del totale e la manodopera è rappresentata per il 17,6% da lavoratori immigrati. Eppure secondo una stima dell’Ance, Associazione nazionale dei costruttori edili, per completare le opere previste dal PNRR mancano oltre 250mila lavoratori.

La debolezza delle politiche e la “svolta” dell’ultimo Decreto flussi

Anche per queste ragioni, diversi osservatori sostengono che è oggi necessario un lucido e razionale piano di aumento dei flussi migratori regolari. Come spiegato recentemente da Claudio Becchetti e Leonardo Becchetti non si tratta solo di rispondere alle esigenze delle imprese: più lavoratori significano più PIL, più servizi sociali, più benessere per tutti. Inoltre, il declino demografico rende insostenibile il sistema pensionistico: anche per questa ragione è urgente ripensare le politiche migratorie.

Occorre dunque riscattare dall’abbandono le politiche migratorie – come affermano Ferruccio Pastore e Irene Ponzo del Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione – secondo i quali: “un certo livello di immigrazione rimane una necessità strutturale. Affidarsi solo alle braccia di risulta dei richiedenti asilo per l’agricoltura e al «badantato» come stampella di un welfare inadeguato sono soluzioni a dir poco subottimali, non compatibili con ambizioni di crescita sostenibile”.

Un segnale positivo sembra rappresentato dal cosiddetto Decreto flussi approvato a fine del 2021: nel 2022 potranno entrare regolarmente in Italia 69.700 lavoratori stranieri. Da un punto di vista quantitativo ciò rappresenta, come osservano Enrico Di Pasquale e Chiara Tronchin su lavoce.info, una svolta rispetto agli ultimi 10 anni: dal 2011 in poi tale numero non era mai salito oltre i 60.000 mila, e negli ultimi 6 anni era rimasto costante a 30.850. Nonostante diversi limiti, come quello che il 60% degli ingressi riguarda lavoratori stagionali, il Decreto rappresenta un tentativo di rispondere al bisogno dell’economia attraverso una pianificazione ragionata e controllata.

Un decennio di politiche inadeguate?

Facciamo un passo indietro. Cos’è il Decreto flussi? E’ un provvedimento con il quale il Governo italiano stabilisce ogni anno le quote di ingresso dei cittadini stranieri non comunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro subordinato, autonomo e stagionale. A partire dal 1998, tale decreto ha rappresentato il principale strumento di pianificazione degli ingressi di immigrati per motivi di lavoro.

A questo strumento è stato affiancato negli anni quello delle sanatorie che hanno permesso di regolarizzare la posizione di immigrati presenti irregolarmente sul territorio italiano. Quella del 2003, per esempio, rimane tra le più grandi di sempre in Europa, con circa 650 mila persone regolarizzate in pochi mesi. Da notare che la regolarizzazione a posteriori rappresenta in qualche modo un’ammissione implicita dell’incapacità di regolamentare gli ingressi (come spiegato qui da Enrico Di Pasquale e Chiara Tronchin) per sanare, appunto, un problema evidente.

Continuando nel nostro ragionamento, negli ultimi dieci anni si è ricorso allo strumento del Decreto flussi in modo molto meno significativo che in passato. Perché? E da cosa sono state caratterizzate le politiche migratorie dell’ultimo decennio? Dal 2008, anno di inizio della crisi finanziaria globale, gli ingressi programmati si sono drasticamente ridotti, arrivando a poche migliaia di lavoratori stagionali. Negli ultimi anni i principali canali di ingresso in Italia sono stati i ricongiungimenti familiari e i motivi umanitari. In entrambi i casi, le domande sono valutate individualmente, senza “quote”.

In sostanza, i bassi numeri dei Decreti flussi degli ultimi anni non dipendevano da un mancato bisogno di manodopera straniera. E, al contrario, il ridotto numero di ingressi regolari consentiti dal decreto ha spinto verso l’utilizzo di “altri” canali di ingresso come sbarchi e visti turistici.

L’accoglienza di richiedenti asilo, luci e ombre

Il picco degli sbarchi che si è verificato tra il 2014 e il 2016 e l’aumento delle domande di asilo sono state conseguenza, non soltanto dagli stravolgimenti geopolitici seguiti alle primavere arabe, ma anche dell’affievolirsi dell’opportunità di ricorrere ad altri canali d’ingresso. Il venir meno della possibilità di emigrare in Europa per ragioni di lavoro ha di fatto aumentato il numero delle richieste di asilo, favorendo anche un ricorso improprio a questo strumento. Nel 2011 circa 60.000 persone sbarcarono sulle coste italiane. Nel periodo 2014-2017 si registrarono tra i 110.000 e i 180.000 sbarchi l’anno. Il numero massimo di migranti inseriti nel sistema di accoglienza, fatto registrare a ottobre 2017, è stato di 191.000 persone (un sintetico ed efficace sintesi di questi dati si trova qui)

Nella maggioranza dei casi i richiedenti asilo sono stati accolti nel sistema di accoglienza straordinaria in capo alle prefetture e gestito da attori privati e del Terzo Settore. Come hanno ben documentato periodici Rapporti di ricerca curati da Openpolis, il fenomeno presenta caratteristiche molto diverse sul territorio nazionale: da esempi di buone pratiche integrate nel welfare locale (sul modello dello SPRAR) a eclatanti e frequenti casi di mala gestione e speculazione.

I tagli finanziari decisi dal Decreto Salvini (convertito nella legge 132/2018) hanno avuto come conseguenza quella di sfavorire modalità di gestione virtuosa che mirassero a promuovere percorsi di inclusione e una buona convivenza tra popolazione locale e migranti accolti sul territorio.

Alcune significative modifiche sono state apportate dal Decreto Lamorgese, che non ha però cambiato sostanzialmente il sistema di accoglienza straordinaria.

Ripartire cambiando approccio alle migrazioni

Il filo dei ragionamenti ci porta a dire – come molti altri più autorevoli osservatori – che occorre ripensare il sistema di accoglienza, garantendo maggiori risorse e mettendo a sistema le esperienze migliori realizzate sul territorio. Partendo da alcuni ingredienti fondamentali: la collaborazione tra attori pubblici locali e attori del Terzo Settore radicati nel territorio, governance multilivello, accoglienza diffusa e integrazione con il welfare locale (si vedano su questo anche le sette tesi della Rete Nazionale per il Diritto di Asilo).

Tuttavia, buone politiche d’asilo, con annesse misure d’integrazione rivolte ai richiedenti asilo e titolari di protezione, non bastano per gestire in modo corretto i flussi migratori. Servono politiche per accogliere e favorire l’integrazione anche dei cosiddetti migranti economici. Serve cioè costruire delle politiche che regolino il fenomeno in modo intelligente. Possiamo dire infatti, sgombrando il terreno dagli equivoci, che non esistono politiche per i migranti e politiche contro i migranti. Esistono invece buone politiche che regolano il fenomeno e cattive politiche che incentivano l’irregolarità e il ricorso improprio ad alcuni canali d’ingresso, a discapito di altri.

Si possono costruire politiche che intendano regolare il fenomeno promuovendo canali d’ingresso regolari, per lavoro, per ricongiungimento familiare e per ragioni umanitarie, e politiche fallimentari che creano irregolarità. La presenza di una pluralità di canali regolari d’ingresso è uno dei tasselli fondamentali di buone politiche migratorie. A tal proposito, appare meritoria la campagna e la proposta di legge Ero Straniero che chiede, tra le altre cose: l’introduzione del permesso di soggiorno per ricerca di lavoro, e la reintroduzione del sistema dello sponsor (sistema a chiamata diretta).

In conclusione, occorre favorire canali d’ingresso regolari (e dunque disincentivare l’irregolarità), accanto a ciò occorre rilanciare le politiche d’integrazione (dalla mediazione culturale al potenziamento dei corsi per apprendere l’italiano), ricordando che anche queste rappresentano un beneficio collettivo. Finanziare queste politiche significa infatti finanziare servizi e competenze dei territori.

Da qui bisognerebbe ricominciare. Occorrerebbe mettere a sistema le buone pratiche sperimentate a livello locale nelle quali hanno lavorato in sinergia attori pubblici e del Terzo Settore e rafforzare la capacità di lavorare in rete nei territori in cui questo avviene con più difficoltà o in modo meno strutturato. Un tema di cui abbiamo peraltro ampiamente discusso nel Capitolo 11 del Quinto Rapporto sul secondo welfare, che affronta la questione guardando a buone pratiche nate proprio negli ultimi anni.