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Web 3.0: la nuova moda tech che si scontra con l’economia reale. Una breve guida

Il Web3 o Web3 promette - questa la retorica di fondo - di decentralizzare i servizi internet, rimettendoli nelle mani degli utenti

di Alessandro Longo

L'ufficio nel metaverso: la realtà virtuale è qui per restare

6' di lettura

Web 3.0 è la nuova parola su cui si stanno concentrando gli interessi di venture, startup, ma ci sono forti dubbi che sia qualcosa di più di un bel concetto di marketing.
Il Web3 promette – questa la retorica di fondo - di decentralizzare i servizi internet, rimettendoli nelle mani degli utenti. I dubbi riguardano la sua sostenibilità economica – non c'è ancora un modello di business per i servizi, ancorato all'economia reale, oltre alla speculazione finanziaria e il collezionismo Nft. Ma anche si dubita dell'ideologia di fondo: che sia davvero decentralizzazione e non – come avvenuto finora con tante altre fasi della tecnologia – uno spostamento di potere da poche mani ad altre poche mani, solo diverse da quelle precedenti.

Tra i critici che si stanno esprimendo in queste settimane anche stimati tecnologi come Moxie Marlinspike, creatore dell'app di messaggistica sicura Signal, e Jack Dorsey, creatore di Twitter. - “Tu non possiedi il Web3. Lo fanno i venture capitalist e i loro partner di un circolo ristretto”, ha detto Dorsey.

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Cosa è Web 3.0?

Al momento non è chiarissimo nemmeno quali siano i confini di questo fenomeno. In generale i suoi proponenti, come il noto venture Andreesssen Horowitz (a capo dell'azienda venture a16z), lo definiscono la nuova fase del web, con servizi basati su blockchain e quindi decentralizzati. Al momento le applicazioni concrete sono perlopiù finanziarie (Defi, finanza decentralizzata, criptovalute) e Nft (Non fungible tokens), apprezzati da collezionisti e che pure sono usati come leva speculativa. A conferma del boom: a livello globale, il valore degli accordi venture capital nella cripto-sfera ha raggiunto 25 miliardi di dollari l’anno scorso, da meno di 5 miliardi di dollari nel 2020.

Horowitz ha annunciato a gennaio di stare gestendo un fondo legato al web3 da 4,5 miliardi di dollari, da aggiungere a tre esistenti del valore totale di 3 miliardi di dollari. Un partner senior ha lasciato a16z questo mese per fondare la propria azienda focalizzata sul web3. Il portafoglio di a16z permette di capire quali sarebbero i servizi Web3 un assaggio di questo nuovo mondo selvaggio. Include già più di 60 startup, almeno una dozzina delle quali sono valutate oltre 1 miliardo di dollari.

Molte stanno sviluppando l’infrastruttura per il web3. Alchemy fornisce strumenti agli sviluppatori per costruire applicazioni blockchain, proprio come il cloud computing rende facile per gli sviluppatori creare servizi basati sul web. Il “mixnet” di Nym è una rete decentralizzata che mescola i messaggi in modo che nessun altro possa dire chi sta inviando cosa a chi. Dapper Labs crea applicazioni Nft come Nba Top Shot, un sito web dove gli appassionati di sport possono acquistare e vendere oggetti digitali da collezione come le rappresentazioni dei momenti chiave delle partite di basket. Syndicate aiuta i club di investimento a organizzarsi in “organizzazioni autonome decentralizzate” governate da “contratti intelligenti”, che sono regole codificate nel software e cotte in una blockchain. E Sound.xyz permette ai musicisti di coniare Nft per fare soldi.

I tecno utopisti arrivano a ipotizzare la sostituzione di tutti gli attuali servizi ora centralizzati – a partire dai social network- con analoghi decentralizzati. Le aziende del Web3 non possono bloccare (lock-in) i propri utenti. A differenza di Google e Meta non ne controllano i dati. OpenSea (in cui a16z ha anche una partecipazione) e Alchemy sono solo tubi. Se i loro clienti non sono soddisfatti, possono passare a un servizio concorrente. Il movimento web3 è una reazione a forse la più grande centralizzazione di tutte: quella di internet. Secondo Chris Dixon, che sovrintende agli investimenti web3 di a16z, il web originale e decentralizzato è durato dal 1990 al 2005 circa. Questo web 1.0, era popolato da pagine web piatte e governato da regole tecniche aperte messe insieme da organismi di standard. Il successore, Web 2.0 ha portato l’ascesa di giganti tecnologici come Alphabet e Meta, che sono riusciti ad accumulare enormi database centralizzati di informazioni sugli utenti.

Quale business model?

Una prima critica riguarda la sostenibilità economica. Non è chiaro quanta domanda esista per progetti veramente decentralizzati. Questo era il problema delle prime offerte web3 (allora chiamate “peer-to-peer” o “web decentralizzato”). Servizi come Diaspora e Mastodon, due reti sociali, non sono mai veramente decollati. I loro successori potrebbero affrontare lo stesso problema. Un servizio come OpenSea sarebbe molto più veloce, più economico e più facile da usare “senza tutte le parti web3”, secondo Marlinspike. Scettico anche Benedikt Evans, storico analista indipendente (con un passato al fianco di Horowitz): “ci sono tre casi d’uso che vengono discussi più e più volte per il web 3”, ha detto in un podcast dell'Economist. “Si potrebbe costruire un campionato di calcio su blockchain, si potrebbe costruire Instagram su blockchain, si potrebbe costruire un sistema di pagamento su blockchain. E le persone ripetono questi esempi più e più volte. Sembrano convincenti: si potrebbe costruire Instagram su una blockchain e poi non saremmo dipendenti dal capriccio di Facebook per chi viene pagato e cosa e come, ma in realtà non abbiamo ancora i casi d’uso reali”, ha detto.

Sarà vera decentralizzazione?

Un problema più di base è che anche se web 3.0 funzionasse senza problemi come il suo immediato predecessore, potrebbe comunque prestarsi alla centralizzazione. Il lock-in, ritiene Marlinspike, tende ad emergere quasi automaticamente. Per un motivo di economie di scale ed effetto rete, fattori intrinsecamente connessi a come funziona l'economia capitalistica.La storia dell’informatica moderna è una lotta costante tra decentralizzatori e ricentralizzatori. Negli anni ’80 il passaggio dai mainframe ai personal computer ha dato ai singoli utenti più potere. Poi Microsoft ne ha recuperato un po’ con il suo sistema operativo proprietario. Più recentemente, il software open-source, che gli utenti possono scaricare gratuitamente e adattare ai loro bisogni, ha preso il posto dei programmi proprietari in parti dell’industria - solo per essere riappropriato dai giganti della tecnologia per far funzionare i loro sistemi operativi mobili (come fa Google con Android) o i centri dati di cloud-computing (compresi quelli di proprietà di Amazon, Microsoft e Google.

La centralizzazione e il lock-in sono stati incredibilmente redditizi. Infatti, a16z ha guadagnato miliardi da Meta, in cui era un investitore iniziale; uno dei fondatori di a16z, Marc Andreessen, siede tuttora nel consiglio di Meta. Le forze che hanno centralizzato il web 2.0 non sono tecniche, ma economiche. L’idea che cambiare l’infrastruttura tecnica possa risolvere il problema della centralizzazione è naif. Per di più, la storia di Internet ha dimostrato che i protocolli tecnici sviluppati collettivamente si evolvono più lentamente della tecnologia ideata da una singola azienda. «Se qualcosa è veramente decentralizzato, diventa molto difficile da cambiare, e spesso rimane bloccato nel tempo», ha scritto Marlinkspike. Questo crea opportunità per il business della centralizzazione: «Una ricetta sicura per il successo è stata quella di prendere un protocollo del 1990 che era bloccato nel tempo, centralizzarlo e iterare rapidamente».E in effetti sta già succedendo. Nonostante sia un fenomeno relativamente recente, Web3 sta mostrando segni di centralizzazione.

A causa della complessità della tecnologia, la maggior parte delle persone non può interagire direttamente con le blockchain o lo trova scomodo. Piuttosto ci si affida a intermediari, come OpenSea per i consumatori e Alchemy per gli sviluppatori.Albert Wenger di Union Square Ventures, una società di vc che ha iniziato a investire in aziende web3 qualche anno fa, indica altri potenziali “punti di ricentralizzazione”. Uno è che la proprietà della potenza di calcolo che mantiene molte blockchain aggiornate è spesso molto concentrata, il che dà a questi “minatori”, come vengono chiamati, un’influenza indebita. Potrebbe persino permettere loro di prendere il controllo di una blockchain. In altri sistemi la proprietà dei token è fortemente sbilanciata: nei progetti Web3 lanciati di recente, il 30%-40% è di proprietà delle persone che li hanno lanciati.Ecco perché al momento l'opinione dominante è che il Web3 non sloggerà il Web2, ma vi si affiancherà. Potrà restare nella forma pura in alcune applicazioni, forse limitate, alcune ancora finanziarie; altre utili a nicchie di utenti che vogliono sfuggire a censure e controlli (soprattutto in Paesi dittatoriali). Il Web3 potrebbe in parte anche cambiare pelle ed essere cooptato dal Web 2.0. Del resto, sta già cominciando: il 20 gennaio sia Meta sia Twitter hanno integrato gli nft nelle loro piattaforme.

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