In Europa, il tema della Long Term Care ha acquisito una centralità senza precedenti durante la pandemia da Covid-19. Gli anziani, infatti, hanno pagato un tributo molto alto all’emergenza pandemica e il settore sociosanitario ha giocato un ruolo fondamentale nel limitare le ricadute dell’emergenza. L’Italia, tuttavia, presenta un clamoroso ritardo rispetto alla predisposizione di misure sociosanitarie e assistenziali rivolte agli anziani non autosufficienti.  Un ritardo che se alimentato, in considerazione dell’aumento del tasso di invecchiamento e del calo della natalità, potrebbe erodere ulteriormente la capacità di risposta del nostro sistema di welfare pubblico.

A tal proposito, il 1° marzo 2022 il Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza ha reso pubbliche le sue proposte per la riforma del settore della Long Term Care (LTC) e l’istituzione di un Sistema Nazionale di Assistenza agli anziani.

In questo articolo ripercorriamo alcuni dei temi centrali connessi alla sfida dell’invecchiamento, contestualizzandoli nel più ampio scenario europeo, e presentiamo i nove elementi fondamentali che, secondo il Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza, distinguono “in negativo” l’Italia e che costituiscono una base di partenza per riformare il settore dell’assistenza continuativa agli anziani colmando così quel gap che ci separa dai sistemi di intervento dei principali Paesi europei.

Riforme mancate e ritardi da colmare

Nonostante la popolazione del nostro Paese sia tra le più longeve al mondo, l’attenzione sulle sfide poste dalla non autosufficienza ha da sempre occupato un posto marginale nel dibattito politico. Non sorprende quindi che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), anche alla luce delle criticità emerse con il Covid-19 – che hanno reso evidenti le debolezze strutturali del nostro sistema di assistenza agli anziani –, abbia riconosciuto l’urgenza di procedere ad una riforma complessiva del sistema al fine di migliorarne l’efficienza e la sostenibilità.

In questi ultimi 20 anni le proposte di riforma del settore della non autosufficienza sono state almeno 18 (per citarne alcune, la proposta avanzata dalla Commissione Onofri nel 1997 o, 10 anni dopo, nel 2007 dalla Fnp-Cisl sui “Livelli essenziali per la protezione delle persone non autosufficienti”). Solo una di esse è stata approvata nel 2006 (quella relativa all’istituzione del Fondo per le non autosufficienze, la legge 296/2006) senza, tuttavia, innescare un processo di spillover in grado di generare altre proposte organiche del settore.

In altre parole, sebbene il dibattito pubblico riconosca la non autosufficienza come una tappa biomedica ineludibile – e, per questo, “urgente” sul fronte delle politiche – non persiste una comunanza di vedute sulle modalità di riforma del settore (in relazione, ad esempio, alla revisione dell’indennità di accompagnamento e alla regolazione delle assistenti familiari).

L’accelerazione della pandema

Al di fuori dei nostri confini, il settore dell’assistenza agli anziani non autosufficienti è stato invece oggetto di profonde riforme nazionali, come avvenuto in Germania (1994), in Francia (2002), in Portogallo e Spagna (2006) o in Austria (2011). Gli elementi comuni a queste riforme sono rintracciabili nell’enfasi posta sul ruolo dei servizi domiciliari, sul miglioramento dell’accessibilità alla rete di assistenza, anche attraverso la semplificazione delle procedure, e sull’attenzione posta alla sostenibilità finanziaria del sistema nel suo complesso.

La pandemia da Covid-19 – e, di conseguenza, il tributo sanitario e sociale che hanno dovuto pagare gli anziani – ha contribuito ad accelerare l’iter verso la riforma. Prima dello scoppio della pandemia, infatti, gli over 65 residenti a domicilio con forti necessità di cura raggiungevano il 30%, un valore in linea con quello europeo ma con una marcata differenziazione di genere, conseguente alla maggiore longevità femminile. L’impatto del Covid ha modificato in profondità questo scenario, riducendo la speranza di vita della popolazione anziana più di quanto non sia accaduto in media negli altri paesi.

In questo contesto il PNRR rappresenta il framework ideale in cui potenzialmente inserire la riforma: esso può, infatti, essere efficacemente utilizzato per avviare il percorso in un’ottica pluriennale, dal 2022 al 2026 (come previsto dal Piano), e per assicurare un monitoraggio continuativo, volto ad accompagnare la realizzazione degli interventi a livello nazionale e locale.

 Un Paese che invecchia in un continente sempre più anziano

Il caso italiano presenta quindi un notevole ritardo, non soltanto nella definizione delle priorità e degli interventi ma anche nella riflessione pubblica sulle conseguenze – per gli anziani e le loro famiglie – dell’invecchiamento della popolazione.

Eppure l’Istat (2021) ha da tempo attirato l’attenzione sulla domanda – sociale e sanitaria – degli anziani, descrivendo come tra le persone ultrasettantacinquenni, ovvero la fascia di età in cui si concentra la gran parte delle persone non autosufficienti, vi siano 3,8 milioni di soggetti con difficoltà motorie gravi e/o compromissioni dell’autonomia nello svolgere le normali attività della vita quotidiana. E ciò diventa ancora più rilevante se pensiamo che in Italia la quota di popolazione con oltre 65 anni di età rappresenta circa il 23% del totale e, secondo le previsioni dell’Istat, sia destinata a crescere sino al 33% tra il 2040 e il 2060. Un livello superiore a quello registrato tra tutti gli Stati membri dell’Unione Europea (Eurostat 2021). Tra questi, Grecia, Finlandia, Portogallo, Germania e Bulgaria presentano risultati prossimi al caso italiano (22%) mentre Irlanda (14%) e Lussemburgo (15%) mostrano percentuali molto più contenute.

Inoltre, considerando il periodo compreso tra il 2001 e il 2020, l’età mediana è aumentata di oltre 7 anni in Romania, Lituania, Portogallo, Italia, Slovacchia, Spagna e Grecia (Fig. 1). Il tema dell’invecchiamento della popolazione europea è quindi rilevante, soprattutto in virtù del fatto che, nello stesso periodo di tempo, la quota di ultraottantenni è quasi raddoppiata.

 

Figura 1. Trend dell’età mediana in Italia, raffronto anni 2001, 2010 e 2020. Fonte: Database Eurostat. 

 

La crescita della quota relativa di persone anziane può spiegarsi per una maggiore longevità (l’invecchiamento al vertice) – dunque, un primato positivo per l’Italia – e dai livelli costantemente bassi di fecondità. Il calo della fecondità contribuisce da molti anni all’invecchiamento della popolazione e determina un declino della percentuale di giovani nella popolazione totale (il cosiddetto, invecchiamento alla base o dal basso). Un ulteriore  aspetto è costituito dall’invecchiamento della stessa popolazione anziana: secondo le proiezioni Eurostat, in Europa la percentuale delle persone di 80 anni e più sarà 2,5 volte superiore nel 2100 rispetto al 2021, passando dal 5,8 % al 14,6 %.

Il prisma dei numeri ci consente di dedurre almeno tre conseguenze in atto e che, nel medio-lungo periodo, potranno gravare ulteriormente sui sistemi di protezione sociale europei: il calo della popolazione in età da lavoro, l’aumento significativo della popolazione in età di pensione, il ridursi del numero di bambini tra gli zero e i quattordici anni.  I tre fenomeni appena citati richiamano l’attenzione, in primo luogo, sulla contrazione dei nuclei familiari e, in secondo luogo, sull’incremento dei bisogni di cura delle persone più anziane che, attualmente in Italia, sono affidati alle famiglie e alle strutture sanitarie pubbliche. Questi due istituti, tuttavia, offrono solo delle tutele parziali (e insufficienti) per far fronte agli enormi costi che derivano dalla perdita di autosufficienza.

Il sistema italiano in prospettiva comparata: nove aree di intervento

Ad attirare nuovamente l’attenzione su questi aspetti è stato, come detto, il Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza che, nelle proposte per l’introduzione del Sistema Nazionale Assistenza agli anziani (di cui vi abbiamo parlato qui), dedica un capitolo all’individuazione delle peculiarità italiane in prospettiva europea. Vengono così identificate nove dimensioni, che rappresentano altrettante aree di intervento, oggi distanti dalle principali best practice sperimentate a livello internazionale.

La prima area riguarda il fatto che, nelle esperienze di riforma sperimentate in Europa, quello della non autosufficienza si configura come un settore specifico del welfare, con un ruolo autonomo e integrato con gli interventi sociali, sanitari e previdenziali già esistenti. Anche l’Italia dovrebbe quindi muoversi seguendo una simile prospettiva.

In secondo luogo, il sistema italiano si distingue per la frammentazione delle prestazioni e dei servizi erogati, sia rispetto alla tipologia di intervento – sanitario, sociale o socioassistenziale – sia nei confronti del soggetto chiamato all’erogazione: Comune, Asl, INPS, Regioni, altri attori. Di conseguenza, emerge una forte differenziazione di carattere territoriale, che ha effetti rilevanti sulla disuguaglianza, e rende difficile ai cittadini non autosufficienti avere accesso alle varie misure e prestazioni.

Proseguendo nell’analisi delle criticità, viene richiamata l’assenza, rispetto alle altre esperienze europee, di un sistema standardizzato e sufficientemente ampio di valutazione, regolato a livello nazionale e/o concordato tra i vari attori che operano a livello locale. Il modello italiano, infatti, se da un lato lascia una ampia discrezionalità alle commissioni di valutazione, dall’altro non è in grado di modulare le prestazioni erogate in funzione del bisogno assistenziale.

Il quarto punto si collega a un aspetto già richiamato, ovvero la tendenza internazionale a dare priorità all’assistenza domiciliare mentre il quinto elemento conferma la presenza di una contenuta copertura del fabbisogno assistenziale anche nel caso dei servizi residenziali e semi-residenziali. In entrambi i casi, infatti, l’Italia si posiziona ben al di sotto della media degli altri paesi europei.

Il sesto elemento che viene evidenziato riguarda un’altra specificità del nostro sistema di welfare: il ricorso al lavoro di cura prestato dalle assistenti domiciliari, le cosiddette “badanti”. Un fenomeno comune anche ad altre nazioni ma che tuttavia in Italia si caratterizza per l’elevato livello di irregolarità occupazionale e contrattuale.

Successivamente viene chiamata in causa quella che può essere considerata l’altra colonna portante del sistema italiano di cura dei non autosufficienti: i caregiver familiari. Quanto al primo aspetto, in Italia queste figure, solitamente donne, sono più presenti rispetto alla media europea tanto in termini numerici sia rispetto all’intensità delle cure fornite. Inoltre, a differenza degli altri Paesi, anche il ruolo riconosciuto ai caregiver lavoratori risulta modesto, tardivo e parziale.

L’assenza di meccanismi di programmazione integrata tra Stato, Regioni e Comuni, invece, rappresenta l’altro lato della frammentazione e si associa alla necessità di potenziare le procedure di monitoraggio e valutazione della qualità dell’assistenza erogata e di formazione del personale. A tal fine, il documento richiama l’utilità degli insegnamenti provenienti dai sistemi programmatori di paesi in parte simili al nostro, come la Spagna, dove la riforma del 2006, piuttosto che sviluppare e implementare un sistema completamente nuovo, ha cercato di migliorare e razionalizzare i meccanismi e le procedure già in atto in materia di assistenza.

L’ultimo elemento, infine, riguarda il finanziamento della spesa dedicata all’assistenza degli anziani non autosufficienti. Anche in questo caso emerge il ritardo rispetto agli altri paesi europei non soltanto in termini di intensità della spesa ma anche rispetto alla fornitura di servizi che, in Italia, raggiungono solo il 40% di coloro che ne avrebbero effettivamente bisogno. Inoltre, come abbiamo visto, nel confronto internazionale si tende sempre più a considerare tale ambito come un ramo a sé stante del sistema di welfare.

È questo il caso di Paesi come la Germania, dove le riforme organiche dopo la riunificazione hanno portato all’istituzione di un’assicurazione sociale per la non autosufficienza, finanziata da una tassa di scopo sui redditi da lavoro e da impresa, o come la Spagna dove, nonostante le difficoltà d’implementazione, nel corso del tempo si è registrato un significativo ampliamento sia degli investimenti nel settore sia della platea dei beneficiari. Sempre in tema di finanziamento, un’altra soluzione che si sta affacciando nel panorama internazionale è l’attivazione di un secondo pilastro integrativo. Tuttavia, come dimostra il caso francese, dove questa forma complementare rappresenta una realtà già consistente, il secondo pilastro integrativo può svilupparsi solo una volta che siano definiti con chiarezza il perimetro e la robustezza del primo pilastro, quello pubblico.

Incentivare la “scarica disruptiva”

La proposta avanzata dal Patto – che raggruppa gran parte delle organizzazioni della società civile che rappresentano gli anziani, i loro familiari, i pensionati, gli ordini professionali e i soggetti che offrono servizi, tra cui Secondo Welfare -, in linea con quanto previsto nel PNRR, si muove quindi all’interno di questo dibattito internazionale e nella piena consapevolezza delle soluzioni adottate (e da tempo) dai principali paesi europei. Per ogni area di criticità richiamata sopra il Patto propone una serie di interventi di riforma – tra loro strettamente coordinati –, finalizzati ad aggredire in profondità le differenti storture del nostro sistema di welfare per garantire la tutela delle persone anziani non più autosufficienti.

Utilizzando la metafora della “scarica disruptiva”, l’obiettivo della riforma dovrà essere quello di innescare una scarica elettrica (il policy change) tale da generare un campo elettrico così elevato da vincere la rigidità (i processi incardinati di path dependency). Il PNRR costituisce una finestra di opportunità da non sottovalutare e che – oltre al suo valore “simbolico” – rappresenta un cambiamento di paradigma: dal “vincolo esterno” (di tipo quantitativo) ad un nuovo indirizzo qualitativo per l’utilizzo delle risorse del Next Generation EU. E, per questo, si configura nel settore della Long Term Care come uno strumento-chiave per affrontare tutti quei nodi che fino a prima della pandemia erano stati invece ignorati.

Ridurre il gap tra l’Italia e gli altri Paesi europei nell’implementazione delle politiche di LTC significa allora lavorare su una proposta organica e integrata che prenda in considerazione l’intero settore e guardi, secondo un movimento insieme top-down e bottom-up, ai ruoli che i singoli attori (beneficiari e erogatori di servizi) ricoprono nella creazione di “valore” (public value) a livello nazionale e, soprattutto, locale.


Riferimenti