Il gender pay gap è il divario nella retribuzione tra uomini e donne a parità di ruolo e di mansione. Si tratta di un fenomeno ancora diffuso, nonostante i tentativi di arginarlo. Il 26 ottobre 2021, ad esempio, il Senato ha approvato in via definitiva la proposta di legge recante Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo, testo recante disposizioni volte a sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e a favorire la parità retributiva tra uomo e donna.

L’incidenza della disparità di genere nel mondo del lavoro è evidente nel rapporto 2021 di AlmaLaurea, un Consorzio Interuniversitario che rappresenta circa il 90% di laureati e laureate complessivamente usciti, ogni anno, dal sistema universitario italiano. Il report “Laureate e laureati: scelte, esperienze e realizzazioni professionali” cerca di mettere a confronto l’istruzione con il mondo del lavoro, evidenziando aspetti salienti nel percorso di studi e le caratteristiche degli impieghi conseguenti. Emerge come ancor oggi esista uno svantaggio strutturale per le donne nel mercato del lavoro. Il paradosso è che le migliori performance negli studi delle laureate rispetto ai laureati non arginano il divario a favore degli uomini su esiti occupazionali e retribuzione.

Il mondo dell’istruzione

A partire dagli anni ’70 la partecipazione delle donne all’Università è stata sempre maggiore e, secondo i dati AlmaLaurea, nel 2020 quasi il 60% di chi ha conseguito una laurea in Italia era costituito da donne.

Quanto al background personale,  il 28,3% delle laureate e il 34,3% dei laureati proviene da una famiglia in cui almeno uno dei genitori ha una laurea; anche per quanto riguarda il contesto socio-economico emerge che il 21% delle donne rispetto al 24,5% degli uomini appartiene alla “classe elevata”, ovvero famiglie di imprenditori o imprenditrici, dirigenti o freelance.

Le donne dimostrano migliori performance pre-universitarie (voto medio di diploma 82,5/100 per le donne, 80,2/100 per gli uomini) e provengono più di frequente da percorsi liceali (l’80,7% delle donne, rispetto al 68% degli uomini), indipendentemente dalla famiglia di origine.

Durante il percorso di studi, le donne presentano indicatori più elevati relativi alle attività integrative rispetto alla formazione, sebbene in alcuni di essi si registrino differenze contenute e poco rilevanti. Tra i vari: le donne prendono parte più degli uomini alle esperienze di studio all’estero (11,6% per le prime, rispetto al 10,9% degli uomini), a quelle di tirocinio curriculare (61,4% rispetto al 52,1%) e a quelle di lavoro durante gli studi (66% rispetto al 64%).

Il curriculum universitario è rafforzato anche dall’andamento del percorso, sia in termini di regolarità negli studi, sia in termini di voto di laurea. La frequenza negli studi per le donne è infatti del 60,2%, mentre per gli uomini del 55,7% e il voto medio per le donne è di 103,9/110 contro il 102,1/110 degli uomini. Tali numeri non vogliono rappresentare una generalizzazione né un giudizio. L’interrogativo che emerge, però, è come mai di fronte ad una carriera scolastica e accademica pressoché assimilabile, all’ingresso del mondo del lavoro il gruppo di persone laureate subisca una netta spaccatura sulla base del genere.

Il mondo del lavoro

Sul mercato del lavoro, infatti, la situazione viene stravolta: le donne hanno esiti occupazionali di gran lunga peggiori rispetto a quelli degli uomini.

Il tasso di occupazione a 5 anni dalla laurea registra percentuali a vantaggio degli uomini: tra i laureati di primo livello (laurea triennale) il tasso è pari all’86% per le donne e al 92,4% per gli uomini; tra quelli di secondo livello (laurea magistrale o equivalenti) è  rispettivamente pari a 85,2% e 91,2%. Il divario di genere emerge anche dal carattere dell’occupazione: a 5 anni dal conseguimento del titolo di studio i laureati, specialmente di secondo livello, hanno un’occupazione più stabile rispetto alle laureate (v. figura 1).

Figura 1. Tipologia di lavoro di laureati e laureate per livello di laurea a 5 anni dal titolo di studio. Fonte: AlmaLaurea 2021.

 

La disparità di genere si manifesta anche nella retribuzione mensile netta (v. figura 2). Il rapporto conferma dunque, da questo punto di vista, la dinamica più ampia e generalizzata del gender pay gap, ovvero il differenziale retributivo tra uomini e donne a parità di ruolo e di mansione.

 

Figura 2. Retribuzione media mensile netta di laureati e laureate per livello di laurea a 5 anni dal titolo di studio. Fonte: AlmaLaurea 2021.

 

Viene sottolineato, poi, come il differenziale retributivo a favore degli uomini sia comunque sempre presente in tutti i settori di impiego. La scelta dei percorsi di studio sta peraltro registrando significativi cambiamenti nel corso degli ultimi anni: nel 2020, per esempio, le donne rappresentavano poco più del 40% del totale di laureati e laureate nell’area STEM (v. figura 3).

 

Figura 3. Laureati e laureate dell’anno 2020: quota di donne per area disciplinare e gruppo disciplinare (valori percentuali). Fonte: AlmaLaurea 2021

 

La presenza di figlie o figli, inoltre, incide sul differenziale retributivo, aumentandolo significativamente. Se a 5 anni dal titolo gli occupati senza figli percepiscono una retribuzione maggiore delle occupate senza figli (+17,5% per la laurea di primo livello e +17,6% per quella di secondo livello), in presenza di figli il gender pay gap sale rispettivamente a +35,4% e +32,0%. Il lavoro di cura appare dunque una spiegazione del differenziale retributivo molto più convincente rispetto al settore di occupazione.

In Italia la suddivisione del lavoro di cura è sempre stata segnata da radicati stereotipi e da politiche di conciliazione non sempre attente a promuovere la parità di genere e pari opportunità di cura per mamme e papà. L’intera società – non solo la sua parte non ancora o non più autonoma – dipende dal lavoro non retribuito delle donne e ne trae beneficio.

In conclusione

La disparità occupazionale e retributiva può essere in parte spiegata dalla scelta dei percorsi formativi (e di conseguenza occupazionali), che secondo la ricerca è fortemente influenzata da stereotipi di genere e da riferimenti culturali di stampo patriarcale: le donne tendono a scegliere percorsi di studio che le porteranno a profili lavorativi meno remunerativi e meno stabili. Abbiamo visto, però, che questa dinamica rappresenta una spiegazione parziale.

Il maggior coinvolgimento delle donne nel lavoro domestico e di cura incide significativamente sulle opportunità lavorative. Le donne dedicano in media molte più ore dei loro compagni ad attività non retribuite ma necessarie alla sopravvivenza e al benessere delle famiglie: pianificazione e preparazione dei pasti per tutta la famiglia, acquisto e pulizia dei vestiti, organizzazione degli spostamenti di tutti i familiari rappresentano solo alcune delle onerose attività quotidiane di cui statisticamente si incaricano maggiormente le donne.

E quando si riduce l’offerta di servizi (per esempio quando chiudono le scuole, per l’estate o come è stato per la pandemia) i bisogni di cura non scompaiono, ma troppo spesso vengono ripiegati sulla figura femminile, con tutti gli svantaggi che ne derivano in termini di penalizzazione o mancata partecipazione al mercato del lavoro.