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È successo nel 2020, poi nel 2021 e, infine, anche quest’anno. Nell’ambito delle misure di welfare aziendale, il Governo ha aumentato la soglia esentasse dei cosiddetti fringe benefit. Dopo che, per due anni, aveva raddoppiato i 258,23 euro previsti dalla legge portandoli a 516,46 euro, nel 2022 la cifra è stata arrotondata a 600 euro. Ma sempre ad anno in corso. E, soprattutto, sempre in maniera temporanea. Non strutturale

I fringe benefit sono una delle componenti del welfare aziendale e riguardano una vasta gamma di servizi e soluzioni, dalle card acquisto di catene commerciali e grande distribuzione (anche online) ai buoni benzina, dai beni e servizi per la mobilità sostenibile alle polizze assicurative. Le imprese li destinano ai loro dipendenti come integrazione del salario, ottenendo dei benefici fiscali

Il costo per lo Stato dell’ultimo aumento deciso dovrebbe ammontare a circa 94 milioni di euro di mancate entrate erariali tra 2022 e 2023, ma al tempo stesso potrebbe generare un gettito Iva tra i 346 milioni di euro e i 547 milioni di euro l’anno dettato da maggiori consumi, stima The European House – Ambrosetti

Tutto bene, quindi, per il welfare aziendale? Non esattamente. 

Un dibattito fossilizzato

“Nel settore del welfare aziendale il dibattito è fossilizzato sui fringe benefit, commenta il ricercatore di Percorsi di secondo welfare Valentino Santoni. “Il rischio – prosegue – è che il welfare aziendale diventi una sostituzione o un’integrazione puramente economica della retribuzione. Andrebbe invece valorizzata la sua dimensione sociale: misure per la famiglia come servizi per l’infanzia, tutela dei non autosufficienti, ma anche piani mutualistici e polizze, sanitarie, la mobilità sostenibile”.

Ma i fringe benefit facilitano la crescita di questa dimensione sociale o la ostacolano? Sono uno strumento facile e immediato di conoscenza e diffusione del welfare aziendale soprattutto nelle PMI oppure una componente del welfare meno nobile e quindi meno degna di essere incentivata da parte dello Stato? 

Anche per Emmanuele Massagli, presidente di Adapt e dell’Associazione Italiana Welfare Aziendale – AIWA, “non è tutto rose e fiori: la norma sui fringe benefit è positiva, la chiediamo da tempo. Ma è ridicolo che continui ad essere prorogata di anno in anno”. A suo parere, bisognerebbe “chiudere il discorso fringe benefit”, rendendo stabile l’aumento a 600 euro con risorse della legge di bilancio perché “necessario, utile e risponde ai bisogni reali”.Si potrebbe arrivare anche a una soglia di 1.000 euro, come chiedono alcuni sindacati, ma aumentare ulteriormente significa indebolire il welfare, svuotarne il potenziale sociale”. Al contrario, prosegue, andrebbero ampliati i servizi sociali per i quali sono previsti sgravi fiscali”. 

Per Massagli, “il futuro si costruisce lì. Le persone ormai sanno cos’è il welfare aziendale. Bisogna passare dai voucher ai piani per la non autosufficienza. Sei anni dopo la riforma del welfare aziendale, i tempi sono maturi”. Anche secondo Jorge Torre, che si occupa di contrattazione sociale e rapporto con il welfare contrattuale per la CGIL, “i tempi sono maturi”, ma in tutt’altro senso.

Il Paese che siamo

Per Torre, “equiparare i buoni spesa e carburante col welfare non va più bene. Va incentivato un welfare aziendale contrattato, sano e nobile. “Diversifichiamo i vantaggi fiscali per incentivare la contrattazione, la partecipazione e l’interesse vero dei lavoratori, spingendo sul welfare reale, legato ai bisogni reali”, prosegue. 

Le diverse posizioni di Massagli e Torre sui fringe benefit arrivano dopo anni di crescita del welfare aziendale, da quando la Legge di stabilità 2016 ha modificato il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) e ha spinto il settore a svilupparsi. 

“La nuova normativa ha portato a una netta espansione del welfare aziendale, anche tra le PMI”, sostiene Paolo Schipani, direttore generale di Welfare Come Te. “Però, e questa è una questione problematica a mio avviso, ha anche ricondotto la parola welfare alla parola vantaggio fiscale, dimenticando il Paese che siamo, fatto di anziani soli, disuguaglianza di genere, povertà educativa… Credo che, negli ultimi anni, il welfare aziendale abbia un po’ squalificato l’approccio al welfare, ragiona Schipani. 

La realtà che dirige, e che è anche uno dei soci di AIWA, è un progetto imprenditoriale lanciato da cooperative e consorzi sociali nel 2020 per “offrire anche alle imprese più piccole l’opportunità di uscire da un approccio al welfare aziendale standardizzato. Welfare Come Te si propone di affiancarle “nella realizzazione di piani di welfare personalizzati, sostenibili e caratterizzati da un forte impatto sociale”. Insomma, non sono una realtà che non sembra puntare sui fringe benefit come modello di business e, infatti, per Schipani, “i fringe benefit sono una risposta parziale, diversa dal cosiddetto welfare sociale, buona per compensare la retribuzione

Il punto però è che non tutte le aziende sono in grado di garantire il welfare aziendale, soprattutto in un momento economico come quello che stiamo vivendo negli ultimi anni, prima con la pandemia e ora con la crisi energetica e l’inflazione. “A maggior ragione in una fase come questa – riprende Torre della CGIL – serve una risposta pubblica, che dia a tutti. Il Pubblico garantisce diritti universali. Il welfare aziendale senza nuove regole generali che vadano in quella direzione, invece aiuta chi è impiegato in aziende o settori che hanno forza economica, non certo chi è dipendente di un’impresa in crisi, incrementando le disuguaglianze. Il welfare aziendale deve essere integrativo e sinergico rispetto al pubblico, su cui bisogna investire”.

Cambiare la normativa sui fringe benefit

Oltre ad essere quasi impossibile per le aziende in crisi, il welfare aziendale è storicamente più difficile da attivare per le aziende medie e piccole. A volte, non hanno la mentalità o i mezzi per farlo. Altre volte, si limitano a distribuire voucher o buoni acquisto, senza pensare a piani più articolati e utili per i bisogni dei dipendenti. Per Massagli, il rischio esiste, ma per scongiurarlo la leva da azionare è l’ampliamento dei servizi di natura sociale”. “Coprire il più possibile i bisogni dei dipendenti – prosegue – rende più facile costruire soluzioni su misura. Ampliare i servizi indicati dal Comma 2 (del’articolo 51 del TUIR, ndr) garantirebbe una grande accelerazione”. 

Per Schipani di Welfare Come Te, il discorso potrebbe valere soprattutto per quelle PMI che hanno già attivato alcune forme di welfare aziendale, in particolare attraverso le piattaforme digitali fornite da molti provider. “Notiamo che, forse a causa del Covid, alcune imprese cominciano a dire «vogliamo qualcosa in più della piattaforma»”.

Secondo Torre, un punto centrale per sviluppare positivamente il welfare aziendale è “creare anche con la contrattazione tra enti locali e sindacato delle reti territoriali per affrontare la crisi”. Un esempio potrebbero essere gli asili nido, che il PNRR dovrebbe far crescere di numero. “Perché non creare asili nido pubblici finanziati anche da delle quote di welfare aziendale?”, si chiede Torre. “Così facendo – continua – le aziende amplierebbero l’offerta del Pubblico che manterrebbe il suo ruolo di governance”.  

Schipani, invece, torna a riflettere sugli sgravi fiscali e, quindi, sulla normativa. “Credo si debba lavorare per una normativa che stimoli, o almeno agevoli, iniziative di welfare aziendale adatte ai bisogni attuali. Non so bene come, ma gli sgravi andrebbero organizzati in maniera diversa da quella attuale”.

Quest’anno, oltre ad aver arrotondato a 600 euro la soglia di fringe benefit esentasse, il governo ha approvato temporaneamente la possibilità di utilizzare questi benefit anche per il pagamento delle utenze domestiche di acqua, luce e gas. Per Massagli, potrebbe essere un segnale che lo stesso legislatore si sia posto il tema di rivedere la normativa.

“Si potrebbe trovare un modo per ‘dirottare’ i fringe benefit esclusivamente verso prestazioni di natura sociale e sanitaria, riprende il ricercatore di Secondo Welfare Santoni. “Ad esempio, si potrebbero apportare alcune modifiche alla normativa fiscale o introdurre card o voucher con cui richiedere solo servizi di welfare. Così, da un lato, si valorizzano certi tipi di misure mentre, dall’altro, si limita il rischio che i fringe diventino una mera compensazione della retribuzione”.

Che è un po’ quanto accaduto finora. Secondo Santoni, le modifiche temporanee alla normativa degli ultimi anni di cui abbiamo parlato in apertura, “non hanno permesso alle imprese e al mercato di adattarsi e anzi hanno rischiato di incentivare una deriva consumistica del welfare aziendale. Con una maggiore certezza rispetto alla norma, sarebbe più facile costruire delle offerte di welfare in grado di generare reali ricadute sociali”.

 


Questo articolo è stato realizzato grazie al sostegno di AIWA – Associazione Italiana Welfare Aziendale, che associa i principali operatori del mercato del welfare aziendale per promuovere la cultura del welfare, del wellness e del well-being delle persone in azienda.

 

Foto di copertina: Photo by Matthew Henry from Burst