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Dopo il Reddito di Cittadinanza il governo è al lavoro per l’introduzione di una nuova misura che dovrebbe chiamarsi MIA: Misura di Inclusione Attiva. Una nuova riforma, dunque, come era stato annunciato nei mesi scorsi che si propone di cambiare (di nuovo) il sistema di contrasto alla povertà. 

Sulla base delle anticipazioni che sono circolate, quello che emerge è anzitutto una stretta alla durata delle prestazioni e alla spesa e di conseguenza agli importi medi e alla platea dei potenziali beneficiari. Viene inoltre confermata l’introduzione di una nuova distinzione tra attivabili e non attivabili che solleva non poche perplessità. I poveri non attivabili continueranno ad avere accesso all’assistenza ma con un sussidio ridotto negli importi e a tempo, per gli altri (i cosiddetti attivabili), oltre alla riduzione degli importi (-30% in media, si stima), ci saranno limitazioni temporali nell’accesso e paletti più rigidi all’attivazione.

Il nodo dell’occupabilità

Il nodo problematico riguarda la concezione stessa di occupabilità, riferita al nucleo familiare e non ai singoli beneficiari.

Ci saranno, dunque, nuclei attivabili e nuclei non attivabili (con minori a carico, persone con disabilità e over 60) ma non è detto, né è opportuno ritenere che la possibilità di rientrare nel mercato del lavoro dipenda dalla condizione familiare, specialmente quando il problema è la presenza di carichi di cura o minori a carico. In realtà è proprio su questi nuclei che le politiche attive dovrebbero agire, ma non semplicemente con il combinato di sanzioni (forti) e incentivi (deboli) tipico degli approcci più punitivi, bensì con la possibilità di usufruire di pacchetti di servizi integrati di cura e conciliazione.

L’assenza di una reale integrazione tra servizi sociali, sostegno alla cura e conciliazione e misure per l’inserimento lavorativo era già presente nel Reddito di Cittadinanza. Con il passaggio al MIA questo problema viene semplicemente rimosso. Da un lato, ci saranno i nuclei non occupabili, dall’altro gli occupabili, prevalentemente single, come è stato fatto notare da Franzini, Gallo e Raitano in un recente contributo, che in qualche modo dovranno rendersi disponibili al lavoro. Per incentivare la partecipazione al mercato del lavoro e scoraggiare il lavoro nero dovrebbe essere estesa la sospensione del sussidio quando si percepisce un reddito superiore ai 3 mila euro annui a tutti i tipi di contratto. Non è così che si disincentiva il lavoro irregolare. Andava piuttosto ritoccata l’aliquota marginale che oggi, per ogni euro da lavoro guadagnato, riduce il sussidio di 80 centesimi, come proposto dal Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza e anche dall’Alleanza contro la povertà.

Risparmi, ma a che prezzo?

Le modifiche che verranno apportate al Reddito di Cittadinanza produrranno sicuramente dei risparmi (2-3 miliardi all’anno si stima) ma i problemi di chi è a rischio povertà nonostante abbia un lavoro rimarranno. Anzi, è molto probabile che aumenteranno, tanto più se a questa stretta seguirà la reintroduzione dei voucher per il lavoro accessorio per un ampio spettro di settori (l’agricoltura, il commercio, ristorazione e turismo solo per citarne alcuni), dove già oggi è radicato un vasto precariato a rischio povertà. I dati li conosciamo e sono preoccupanti. Più dell’11% della forza lavoro in Italia è a rischio povertà, una percentuale nettamente al di sopra della media europea (l’8,9% nel 2021), con le punte di maggiore disagio tra i giovani, le donne e nelle regioni del Sud.

Il paradosso è che, come ha ricordato l’Istat nell’ultimo rapporto sull’occupazione, non si contano così tanti occupati in Italia come oggi (+465 mila unità rispetto allo scorso anno). Ma non basta aumentare l’occupazione per avere condizioni di lavoro decenti. E non basta eliminare o dare una stretta al Reddito di Cittadinanza né promettere che la formazione sarà rafforzata perché gli attivabili trovino un lavoro. Già oggi i beneficiari del Reddito devono seguire corsi di formazione. Lo stesso programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori), con cui nei prossimi anni sarà ridisegnato il sistema di politiche attive del lavoro, ha tra i suoi target i percettori del Reddito di Cittadinanza. Ma anche con i nuovi corsi di formazione, ammesso che verranno davvero erogati, i risultati rischiano di rimanere al di sotto delle attese, specie nelle aree del paese più deboli, dove peraltro la presenza delle agenzie private di collocamento (che entreranno nel sistema di attivazione) è scarsa. E questo per un semplice motivo.

Quando la domanda è debole o stagnante, come in molte aree del Mezzogiorno, quando il lavoro pagato poco o sommerso è l’unica alternativa alla disoccupazione, le politiche attive del lavoro possono poco se rimangono slegate da interventi per creare e fare emergere nuova domanda di lavoro.

Gli insegnamenti della pandemia

Se c’è una cosa che dovrebbe averci insegnato la pandemia è che di ammortizzatori sociali e sussidi, soprattutto quelli contro la povertà, non si può fare a meno, perché svolgono una funzione di stabilizzazione sociale e anche economica fondamentale, tanto più in periodi di crisi. Un altro insegnamento che dovremmo trarre è che l’assistenza, se nel breve periodo consente di dare respiro alle emergenze sociali, da sola non risolve il problema della mancanza del lavoro.

È qui che andrebbero concentrati gli sforzi, mettendo in campo una vera strategia nazionale per la creazione diretta di lavoro. Se non si interviene sulla domanda di lavoro, versioni meno punitive del workfare non cambieranno i problemi di fondo che rendono difficile ritrovare un’occupazione.

Per questa ragione più che continuare a finanziare programmi per l’occupabilità sarebbe il caso di pensare a qualcosa di radicalmente diverso, ad esempio una vera Job guarantee europea, un programma finanziato dall’Europa per creare non stage e tirocini fini a sé stessi o lavoro gratuito nei servizi di comunità per i percettori di reddito minimo, ma lavoro vero e utile per rispondere ai bisogni emergenti (sociali, produttivi, ambientali, legati alla transizione green e digitale) che impattano sui territori, spesso però rimanendo a uno stato di latenza per l’assenza di una vera strategia per la creazione diretta di nuova domanda di lavoro.

Creare nuova occupazione

È a questa filosofia del resto che, come ha suggerito Maurizio Ferrera di recente, si ispirano alcuni programmi che iniziano a diffondersi in diversi Paesi europei e che farebbero bene anche all’Italia. Penso al programma francese “Territoires zéro chômeur de longue durée” o alla Job guarantee austriaca sperimentata nella cittadina di Marienthal, già sede negli anni Trenta di uno degli studi seminali sulla disoccupazione di massa ad opera Hans Zeisel, Marie Jahoda e Paul Lazersfeld.

La creazione diretta di nuova occupazione dovrebbe smettere di essere vista come utopia o la riproposizione del vecchio modello dei lavori socialmente utili. Si tratta in realtà di finanziare partenariati di cui siano protagonisti i territori, gli enti locali, e i molteplici soggetti del Terzo Settore, già da tempo attivi nella sperimentazione di nuovi modelli di imprenditoria sociale o nella riconversione di imprese esistenti, con l’obiettivo di creare nuovo lavoro.

Niente di tutto questo è previsto dalle riforme che il Governo ha annunciato. È tuttavia su questo terreno che andrebbe concentrata l’attenzione, per non limitarsi alla pars destruens, senza proporre reali alternative che già oggi esistono.

Foto di copertina: Foto di Markus Winkler su Unsplash